La verità sulla morte di Sana Cheema deve attendere ancora. E sperare che le indagini delle autorità pachistane facciano davvero chiarezza su tutto, come chiedono con forza gli amici della ragazza a Brescia. Ma i tempi dell’autopsia sfumano da 15 giorni a 3 mesi per le analisi che verranno svolte a Lahore, la grande città a 120 chilometri dalla zona rurale di Gujrat nella quale la ragazza è stata seppellita e dove la sua famiglia ha un’elevata posizione sociale: il fratello è in politica e con lo zio e il padre (attorno al quale gira tutto il caso) è stato prima arrestato ma poi rimesso a piede libero, con l’obbligo di non lasciare il Pachistan. Mustafà Gulam, da 15 anni operaio alla Innse Cilindri di Brescia, ha dichiarato che la figlia stava male a causa del troppo alcool che beveva in Italia, ma ha anche prodotto due certificati medici e uno di morte. Validi? Non dovrebbe essere difficile stabilirlo, tuttavia fino a che l’esame autoptico non troverà ciò che cerca – ovvero il veleno nello stomaco di Sana – quello della venticinquenne appare come un corpo integro, senza segni di violenza da dover spiegare. E il funerale, fatto in fretta e furia, ma fatto, non basta a inchiodare i sospetti. Anche se celebrato a poche ore dal volo che avrebbe riportato Sana a Brescia dove si era diplomata, dove lavorava con passione, dove aveva ottenuto il settembre scorso la cittadinanza italiana e dove qualcuno (ma chi?) ha ricevuto 59 telefonate partite dal cellulare che ha accompagnato il tristissimo destino di questa giovane donna.